ADAGIO, MA NON TROPPO
"Attenda lì, agli ascensori!" Dietro le vetrate a specchio, dove si riflette l'andirivieni concitato e scomposto del personale sanitario, accanto alla mole metallica degli ascensori c’è uno spazio neutro, opaco, simbolico confine tra il battito sospeso dei cuori e ... il resto del mondo che pulsa.
Luogo di soglia, luogo di attesa, luogo dove anche la sola presenza della classica infilata di sedili di legno impiallacciato ti fa sentire in una sala d'aspetto, aspetto sì, sala non direi, luogo che, anzi, della sala ha tutt'altro che l'aspetto.
E mentre ti cali in questa arida conca innaturale, vieni inspiegabilmente attratto dal particolare insignificante dell'abito piuttosto che dell'accessorio di chi ti sta vicino e, come te, attende: il filo ribelle che esce dal maglione (per non andare poi troppo lontano), il risvolto del pantalone che un tempo era di classe (quale classe?), il blocco solidale composto da braccialetto-orologio-anello vistoso che la signora con gli occhiali scuri di tartaruga seduta di fronte a te esibisce con studiata naturalezza, il tatuaggio che incorona il robusto bicipite dell'omone in canotta che, spaesato, sembra voler dire: "Io, qui, che ci sto a fare?".